Il bisogno dell’anima corporea di sentir piacere
Sentir piacere è, per me, un bisogno della vita, della vita vissuta, del vivere, del vivere umanamente, dell’umano più umano, della vita come unica insistenza.[1] È un bisogno dell’anima corporea, espressione felice, questa, di Antonietta Potente: bisogno dell’anima che ha un corpo, non è nel corpo,[2] bisogno sentito come piacere della carne e dello spirito inseparabili. Sentir piacere è una necessità del pensiero, del pensiero fatto con le mani, tattile, toccato anche a tentoni, e fatto con la mente femminile che è mantica, indovinazione: pensiero per se stesso, libero da tentazioni astratte, accademiche, libero dagli appigli del potere, radicalmente libero dal potere sociale: pensiero che non fa gerarchia né dominio né violenza.
In realtà, uno dei piaceri femminili più alti e profondi che conosco, per averlo sperimentato e per averlo letto dopo nella scrittura di altre, è quello che, come vedremo, si da nel dire e nello scrivere un sentir piacere o una visione, più che nella visione stessa. L’ho chiamato l’orgasmo della parola giusta. Non c’è parola vera, parola in lingua materna, senza materia, senza corpo, senza la verità dell’anima corporea. Il piacere è realtà indiscutibile.
Parlo del piacere del mercato femminile, il mercato originario, di scambi veri e liberi, quotidiani e anche festivi, in cui i corpi non vanno al mercato, non vanno al mercato maschile, non si affittano, non si vendono, non sono dati in prestito: sono dati dalla madre per viverli e goderli, e basta. E parlo della vita sostanziale, essenziale, se mi permettete l’uso di questa parola proibita dal femminismo senza donne; parlo della vita direttamente guardata, vivente, guardata con candore, con lo sguardo puro, e messa in parole libere dagli /-ismi, libere dalla maschera delle ideologie e del potere ideologico. Autentica? Credo di sì, nel senso del verso di Carla Lonzi nel Secondo Manifesto di Rivolta Femminile, che dice «L’autocoscienza è l’altra».
Cosa voglio dire quando dico “vita”?
Osservando la mia realtà e quella delle donne che amo e che frequento, mi ne sono resa conto negli ultimi tempi del fatto che, senza volerlo e senza prevederlo, noi donne più o meno emancipate, femministe o meno, abbiamo lasciato vuoto il campo semantico della vita, il suo senso, i suoi sensi e i suoi sentiri. E abbiamo anche rinunciato senza tante parole alla nostra proprietà naturale su di essa, proprietà nostra di donna perchè siamo noi a mettere al mondo la vita e ad averne cura fino alla morte. Me ne sono accorta considerando come mai in pochi anni tutto è diventato “bio”; in un modo ormai ridicolo. Il “bio” vende. Ho notato che noi donne del mio tempo abbiamo offerto al mondo molto più lavoro che vita, assai più lavoro che vita. Abbiamo trasformato la società, il sociale, abbiamo modificato la politica sessuale e i rapporti di potere portando il patriarcato alla sua fine. E il prezzo di questo grandissimo successo è stato pagato in vita. A mio parere, la vita, la vita come unica insistenza, e la parola “vita”, si sono svuotate, abbandonate da noi donne, e il vuoto, il gap, lo iato, è stato furbamente occupato dal mercato maschile. Un mercato che naturalmente parla greco classico, una lingua morta e, come la morte, universale e infallibile.
Ricordo come tanti anni fa, nel 1991, quando è uscito l’amatissimo libro L’ordine simbolico della madre di Luisa Muraro, ho vissuto un’esperienza simile: la lingua materna ha avuto bisogno di un nuovo nome – ordine simbolico – (nome, tra l’altro, maschile, lacaniano) perché era stata abbandonata da noi donne: parlavamo un linguaggio universitario imparato molto più tardi, in secondo o terzo luogo, e maschile. Ho capito allora che io per prima credevo che il simbolico, anche se lasciato da parte o dimenticato, restasse vivo comunque; e invece, non è così. Sbagliavo, sbagliavo piacere, sbagliavo lingua, sbagliavo orgasmo.
Dietro la parola “vita” si nasconde il piacere femminile, il piacere clitorideo. Si nasconde dietro o forse dentro una parola che si svuota, che si svuota di senso.
Irrinunciabile?
Ho detto all’inizio che il sentir piacere è un bisogno della vita, della vita vissuta, del vivere, dell’umano più umano, dell’anima corporea. È un bisogno perché per una donna il piacere clitorideo è la misura della vita, misura a volte dimenticata. È anche un irrinunciabile, come dice il titolo del nostro Seminario?
Se penso astrattamente, direi di sì, direi che il sentir piacere è un irrinunciabile del vivere umanamente. Se penso come la storica che sono, cioè se penso in contesto, dico di no: le donne abbiamo rinunciato assai al nostro piacere proprio, il piacere clitorideo. E non in modo storicamente discendente, ma in modo storicamente ascendente, sebbene non lineare, no, con passi laterali e tante diversità e fratture. Abbiamo rinunciato nel corpo e nell’anima, cioè nel concepimento dei corpi e nel concepimento dei concetti. Mai del tutto, certamente, ma sì. Abbiamo tenuto la separazione fra carne e spirito propria del patriarcato e del razionalismo greco ed europeo, propria del contratto sessuale che è in realtà un contratto fra uomini sul corpo delle donne che lasciava la nostra anima senza sede, vagante.
Se prendo me stessa, se prendo la mia esperienza come esempio e prova, dico con dispiacere che ho scoperto che il piacere femminile è clitorideo soltanto quando ho lasciato dietro l’insegnamento universitario, l’insegnamento ufficiale. Ho dovuto fare tutta la carriera universitaria per rendermene conto, per capire questo semplicissimo fatto. Abbiamo lasciato il piacere clitorideo alla mistica unitiva, abbiamo indovinato che apparteneva a essa, alla mistica unitiva, e abbiamo lasciato la mistica unitiva fuori della conoscenza universitaria. E l’abbiamo dimenticata per lungo tempo.
Ricordo, sì, la presa di coscienza, quando cominciai a insegnare nel 1982, del fatto di dover lasciare il mio sesso (parlavo così in quei tempi) fuori dell’aula, sulla soglia. Ma non ne capivo veramente la portata. Non per caso noi donne, femministe o meno, della seconda metà del Novecento siamo le eredi dell’invenzione dell’orgasmo vaginale. Non per caso confondiamo oggigiorno la vulva con la vagina, tanto nel parlare come nello scrivere. Non era così nel Medioevo. La vagina è stata inventata dall’anatomia maschile universitaria del Seicento, sostanzialmente per il piacere virile, per il «confortevole scontro virile», come scrisse il suo inventore, un prete anatomista dell’Università di Padova.[3] Ricordo le risate traducendo questo brano dal latino non molto tempo fa, cioè l’anno scorso.
Devo dire che María Zambrano, mistica oltre che filosofa, molto amata da me e da tante altre, non mi aiutò in questa ricerca, nella ricerca sul bisogno umano femminile di sentir piacere. Per anni ho portato in testa e citato un suo pensiero, scritto in una delle sue grandi opere, del 1939, Filosofia e poesia; un pensiero bellissimoche, però, mi metteva in confusione, e prima di scrivere recentemente il libro Il piacere femminile è clitorideo, non sapevo perché, perché mi metteva in confusione. Scrive María Zambrano:
La prima idea che si crea dell’amore è già mistica. Per questo è un gran errore ciò che molte volte si è detto: che l’amore mistico è una copia tale quale dell’amore carnale. È tutto il contrario: l’amore carnale, l’amore tra i sessi, ha vissuto ‘culturalmente’, cioè nel suo modo di esprimersi, sotto l’idea dell’Amore platonico che è già mistica. […] Grazie al platonismo l’amore ha avuto un prestigio intellettuale e sociale. Si è potuto amare senza che questo sia un fatto scandaloso. […] Questo è, crediamo, il fondamento di ogni mistica: che l’amore che nasce nella carne (ogni amore ‘prima’ è carnale) deve, per riuscirci, sottrarsi alla vita, deve anche convertirsi, come diceva Platone si doveva realizzare con la conoscenza.[4]
Ma io l’amare non lo vivevo come«un fatto scandaloso». Lo vivevo come puro. E non sentivo affatto la necessità di disfarmi (desprenderme, scrive María) della vita per amare e nemmeno sentivo la necessità di convertire la vita in qualcos’altro. E meno ancora sentivo bisogno di Platone. In questo senso parlo di svuotamento della parola “vita”, svuotamento della sua essenza femminile, materna e gioiosa.
A mio parere, questo testo di María Zambrano ha due problemi, entrambi comuni e culturalmente importantissimi, problemi probabilmente condivisi ancora da tante. Il primo è la separazione tra amore mistico e amore carnale. Il secondo è l’equivalenza fra amore carnale e amore fra i sessi. Tanto María Zambrano come me, come alcune o molte di voi probabilmente, abbiamo sofferto in profondità la violenza ermeneutica universitaria. La prima violenza è stata la separazione dialettica anima/corpo, carne/spirito, persino amore e mistica, al modo della separazione originaria fra acque dolci e acque salate con l’imposizione del patriarcato accadico nella Mesopotamia di Tiamat che ha studiato Barbara Verzini nel suo libro La Madre nel Mare.[5] Oggi però, una volta finito il patriarcato e presa coscienza della violenza ermeneutica universitaria, sappiamo che la mistica è unione, non conversione, e che anima / corpo non fanno un’antinomia del pensiero. Sappiamo sentire e dire, come ho già detto, “anima corporea”. È sappiamo che questa espressione felice corrisponde all’esperienza femminile vissuta, senza necessità di convertirsi in nient’altro né superare la vita. Sappiamo che Amore da e sostiene la vita. Sappiamo che il piacere è della mistica, del Mistero. L’essere donna è, a mio avviso, uno dei più grandi misteri.
Sappiamo anche – ci è stato insegnato mezzo secolo fa da Carla Lonzi e Rivolta Femminile –[6] che il piacere delle donne è clitorideo. Lo sapevano anche le mistiche beghine cattoliche d’Europa e d’America, e non solo, forse meglio di noi.
Sappiamo che Amore non è mediatore ma sentire proprio originario. Sappiamo che Amore è all’origine, nel prima del prima, ed è origine, l’origine, l’umano più umano. Oggi, e da poco tempo, posso dire che il pezzo del cosidetto Discorso di Socrate del Symposio di Platone dove costui dice di raccogliere le parole di Diotima di Mantinea sull’Amore, non e vero ma contaminato dalla violenza ermeneutica maschile e patriarcale di questi due filosofi e amici. Non è vero che Amore sia mediatore fra i Dei e gli uomini. Finito il patriarcato, sappiamo che Amore viene prima degli Dei, ed è femmina, Divina, la Prima, Divina Presenza.[7] Come sucede nella vita. Lei è origine e presenza, non mediazione; la mediazione, interessante com´è, viene dopo, in secondo luogo; e serve per gestire la ridicola rivolta del figlio contro la madre.
Sappiamo che il piacere è della mistica: è sentire e vissuto del mistero. Lo troviamo nella Lontanavicina (le Loingprès) delle mistiche beghine del Medioevo. Una volta capito che Amore, Dama Amore, non è mediatore ma la Prima, sappiamo che, come diceva Hadevijch, «Amore è la cosa sola che può a noi bastare, e altra nessuna»[8].
Amore è un sentire ed è piacere. È sentir piacere. In questo senso è un bisogno, bisogno dell’anima corporea. Una volta finito il patriarcato, la Via gaudii, la Via del piacere, cambia tutto. Restituisce la Via dolorosa ai suoi inventori e fa un nuovo inizio. Questo inizio l’ho chiamato L’Era della Perla. La Perla è uno dei nomi comuni della clitoride. Nell’Era della Perla, il piacere è un vissuto naturale dell’umano più umano, umano che è divino femminile. Nell’Era della Perla, il piacere è per una donna la misura della vita.
Le donne che abbiamo messo al mondo la fine del patriarcato non inauguriamo l’Era della Perla. L’Era della Perla esiste ed è esistita da sempre, lì dove il piacere è piacere dell’anima corporea, del corpo e dell’anima insieme, inseparabili. La si può rintracciare ovunque: le monache, le mistiche, le beghine, le frigide, le spinsters, le femministe, la donna clitoridea di Carla Lonzi… tante, tantissime altre che hanno avuto e hanno indipendenza simbolica.
Il piacere di concepire corpi e concetti senza coito ne fallo
Del libro Il piacere femminile è clitorideo, ha detto Antonietta Potente quando è stato presentato in Italia e in Spagna alcuni mesi fa, che è una nuova visione, una nuova Annunciazione.[9] Io non conoscevo allora l’espressione “anima corporea”, ma quello che il libro annuncia è che il piacere femminile è clitorideo e, soprattutto, che per una donna il piacere è piacere del corpo e dell’anima insieme, inseparabili. Cioè non esiste, per una donna clitoridea, un sapere sull’anima. Non esiste per me donna un’idea dell’amore che è già mistica. Esiste il piacere che è già mistica. Il libro sostiene che il piacere clitorideo è piacere di concepire corpi senza coito e concetti senza fallo. Contemporanea e inseparabilmente, ripeto. Piacere come sentire naturale, non come fatto sociale né come necessità sociale. La fine del patriarcato ha reso evidente questo sentire naturale, sentire umano in comunione con la natura, natura che, a mio avviso, esiste in tanto che esperienza femminile.
Il piacere non si trova fra i bisogni eterni dell’anima di cui parlò magistralmente Simone Weil. Non si trova perché non è un bisogno dell’anima ma dell’anima corporea. La distinzione è fondamentale: il corpo deve intervenire. Simone Weil scrive sfiorata dal dualismo della violenza ermeneutica universitaria. Oggi non più. Perché. Perché il contratto sessuale, fondamento del patriarcato, separava in primo luogo noi donne dal nostro piacere, dal piacere clitorideo, prima di separarci dalla maternità e come condizione di essa. Senza piacere, una donna è triste, si sente debole perché inadeguata alla felicità e al bene. Per una donna, la conoscenza universitaria è raramente orgasmica o gioiosa.
Concepire corpi senza coito e concetti senza fallo è un’espressione che mi è venuta in mente scrivendo la biografia di Suor Juana Inés de la Cruz nel 2019. Lei non concepì corpi ne con coito ne senza perché, secondo ciò che scrisse nella sua Risposta a Suor Filotea de la Cruz, non si sentiva predisposta al matrimonio. Tutto il suo impegno lo mise nel concepire concetti senza fallo, nello scrivere su questo e nel fare instancabilmente politica nella Querela delle Donne con tutti i mezzi possibili: la sua stessa vita, i suoi amori, la poesia, il teatro, la musica, la pittura, la teologia, la mistica, l’astronomia, il saggio, il dibattito, la risata…
Cosa vuol dire concepire corpi senza coito? Vuol dire rimanere vergine non praticandolo, il coito, o praticandolo quando una donna vuole essere madre o vuole che sua figlia o suo figlio abbiano un padre, o quando sinceramente le piace perché le piace essere penetrata o perché gode accogliendo il piacere dell’uomo senza confonderlo con il suo orgasmo proprio, l’orgasmo clitorideo. Essere padre è essere mediatore tra passato e futuro, cosa molto importante se è ben fatta ma, in ogni caso, viene al secondo posto, sempre dopo la madre.Tutto il resto, a mio avviso, son discorsi vani, una montatura perversa nata dalla vaginalità patriarcale imposta alle donne e agli uomini con il fine di ottenere un certo tipo di società estremamente gerarchizzata; ossia, una montatura molto violenta nata dal contratto sessuale, sebbene di contratto abbia poco o nulla, dal momento che viene pattuito tra uomini e colpisce principalmente le donne e la loro discendenza.
Che cosa vuol dire concepire concetti senza fallo? Vuol dire pensare con godimento, con le mani, dicevo prima, pensare ciò che una sente nel suo sentire proprio originario sino a portare il sentire nella parola che non lo lascia indietro, che non lascia indietro la materia, la verità del corpo; prescindendo così dalla violenza ermeneutica universitaria.
Perché all’università è improbabile che una donna concepisca concetti senza fallo. Non è che sia vietato: semplicemente (Dama) Amore non abita più lì, qui, non ha abitato mai lì.
Per concepire concetti senza fallo, tantissime donne lungo i secoli si sono ispirate, fossero ricche o povere, istruite o meno, all’Immacolata Concezione.[10] L’Immacolata Concezione è di por sé un concetto senza fallo ed è, per questo, la guida per concepire corpi senza coito e concetti senza fallo.
Che cos’è l’Immacolata Concezione? È una donna, chiamata Maria -proprio il nome delle acque anteriori alla separazione delle acque con la terra, cioè precedenti ad ogni artificiosa separazione, analisi, disquisizione, antinomia e diatriba accademica-, che concepì il Tutto, chiamato Dio nel cattolicesimo, senza smettere di essere Vergine, senza macula o macchia di penetrazione maschile o della violenza ermeneutica. Ed è anche un’altra donna di categoria minore, conosciuta come sua cugina Santa Elisabetta, che fecce lo stesso, nel suo caso non dando alla luce Dio ma il suo precursore, Giovanni Battista. Nel suo caso Dio Padre non partecipò passivamente, a quanto pare, ma un uomo anziano. Se il nome Elisabetta deriva da Elisa, lei fu regina, sovrana del concepimento, proprietaria e signora del simbolico.
C’è penetrazione senza macula e con macula? Sembra proprio di sì. La questione è ontologica, cioè dell’essere, ed è sopratutto simbolica, del sentire e del senso, ossia della competenza simbolica sui corpi e sulle parole. La guida si trova nel piacere, nel piacere di concepire, siano essi corpi o concetti. È immacolata la donna che non si sottomette alla violenza ermeneutica universitaria, colei che non cede di fronte a nulla il suo piacere di concepire corpi e concetti: “Non sono stata femminista, sono stata femminile, non ho ceduto”, ha scritto María Zambrano, senza che si sappia precisamente a che cosa stesse pensando. È immacolata la donna il cui essere, la cui esistenza simbolica, la cui esistenza senza aggiungere altro, non dipende dall’essere uomo. È immacolata colei che non si conforma con le vistose rivoluzioni dentro i canoni della vaginalità (Carla Lonzi).
La donna clitoridea concepisce corpi senza coito e concetti senza fallo. Come diceva Carla Lonzi mezzo secolo fa, lei “non ha nulla da offrire all’uomo, né si aspetta nulla di essenziale da lui”. Suona crudo e fa un po’ paura per la possibilità di aprire una lotta devastante tra i sessi, però non è così, non e un’espressione cruda ma pregna d’esperienza; a parte che è difficile che ci sia più lotta tra i sessi di quella che c’è attualmente, ora che veniamo uccise, giorno dopo giorno, da mariti ed ex-mariti, amanti ed ex-amanti senza che questo produca alcuna contraddizione sociale.
Questa è la forza dirompente della radicalità femminista, riprendendo parole che sono di Barbara Verzini:[11] la clitoridea si mantiene fedele alla propria genealogia femminile, della cui forza gode; è quella che non cede di fronte alle richieste o ai ricatti dell’uomo maschilista. Quello che sto dicendo non ha niente a che fare con ciò che chiamano “sessualità”, che solo vagamente si sà cosa sia. È un’affermazione mistica; ha a che fare con il piacere, piacere che è un’esperienza inconfondibile dell’anima corporea che non lascia spazio a dubbi né ai filosofi. Ci sono troppe cose infilate dentro il sacco della “sessualità” che non hanno nulla a che fare con il piacere femminile.
Capita, a mio avviso, che ogni bambina nasce clitoridea e nasce vergine, e può rimanere clitoridea e vergine per tutta la sua vita, sia o non sia una madre. Questa non è un’affermazione transfobica ne volta a escludere qualcuno. Di nuovo, è un’affermazione mistica, misteriosa: il piacere appartiene alla mistica, ho detto. È un Mistero che custodisce e garantisce l’integrità del corpo di una donna e del suo piacere proprio, un’integrità e un piacere che storicamente sono state poco rispettate da molti uomini, non tutti, che tendevano a frammentare il corpo femminile per colonizarlo e possederlo, e tendevano a negare l’esistenza di ciò che loro non possono essere e invidiano, nella loro feroce tendenza all’uno, al fallo, costruzione culturale del pene.
Rimane in sospeso la domanda sul destino della penetrazione e sul senso stesso della sessualità maschile libera dal contratto sessuale. La risposta la possono dare solamente gli uomini non patriarcali né maschilisti. Ogni giorno ce ne sono di più -credo- più capaci di tenerezza e di riconoscere la propria origine femminile, più sensibili alle carezze e alla relazione per il piacere di stare in relazione: più sensibili a Amore, Amore como origine e Dama, come Divina, Divina Presenza, la Prima e la datrice e sostenitrice della vita e la parola, vita che è l’unica insistenza, parola che porti con sé il piacere della verità dell’anima corporea.
In questo senso del piacere dell’unione fra vita e parola ho accennato prima all’orgasmo della parola giusta. L’ho sperimentato personalmente e l’ho rintracciato dopo in un testo mistico autobiografico, del 600 o forse il 700, scritto in America, probabilmente Messico, da Isabel Manuela de Santa María, intitolato De conciencia.[12] Consiste nel piacere dell’unione misteriosa del sentire e la parola, la parola per dirlo, nel momento di pronunciarla, la parola, nella coincidenza di ambedue, nel trovare l’espressione giusta come accadeva alle trovatrici, nel concepirla, nel suono al dirla, o scriverla, concependola nello scrivere. Sentire e parola vibrano nell’unione come Luce fluente della Divinità, se posso riprendere dal titolo del libro della mistica beghina del Duecento Mechthild von Magdeburg, Luce materiale, sentita nella carne. Racconta Isabel Manuela de Santa María che lei sentiva piacere, piacere intenso, non tanto nella visione quanto nella scrittura della visione.[13]
L’orgasmo della parola giusta è politicamente importante per la connessione del dire con la verità del corpo, connessione necessaria, a mio avviso, per fare simbolico. Connessione che ci manca, a volte, spesso, direi, non lo so.
L’orgasmo della parola giusta io non l’ho mai conosciuto all’università.
[1] Riprendo da Antonietta Potente, Umano più umano, Firenze, Edizioni Piagge, 2013. Sulla vita indivisibile, Ead., La religiosità della vita. Una proposta alternativa per abitare la storia, Roma, Icone edizioni, 2003.
[2] Antonietta Potente, Come il pesce che sta nel mare. La mistica luogo dell’incontro, Milano, Paoline, 2017, 79-80. Ead., Se non rendi incorporei i corpi e corporee le cose prive di corpo, il risultato non ci sarà: Tornare ad essere nel cosmo, Scuola di Alta Formazione Donne di Governo, Accademia della spiritualità e dell’ecologia #6, 24 aprile 2021, https://www.youtube.com/watch?v=mC2G-Or8RY4
[3] María-Milagros Rivera Garretas, Il piacere femminile è clitorideo, trad. di Barbara Verzini, Madrid e Verona, Edizione indipendente, 2021, 34.
[4] María Zambrano, Filosofía y poesía, Madrid, Fondo de Cultura Económica, 1993, 68-70. [Morelia (México), Publicaciones de la Universidad Michoacana, 1939].
[5] Barbara Verzini, La Madre nel Mare. L’enigma di Tiamat. Verona e Madrid, Edizione indipendente, 2020.
[6] Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale e altri scritti, Milano, Scritti di Rivolta Femminile, 1974.
[7] Cfr. il mio El pensamiento del sentir: la mujer clitórica entre las entrañas y la lengua, en Magda Lasheras Araújo, ed., Filosofía de la historia y feminismos, vol. II, Madrid, Dykinson, 2021, 155-178.
[8] Hadevijch, Poesie Visioni Lettere, scelte e tradotte da Romana Guarnieri, Genova, Marietti 1820, 2000, 112-112.
[9] Antonietta Potente, Presentazione di ‘El placer femenino es clitórico’, Napoli, Studi Femministi, 7/2/2021, https://www.youtube.com/watch?v=hAmZe1OhFjc&list=UULE0Bail9zw_p3SewnnMEDA&index=7
[10] Prendo liberamente dal mio Il piacere femminile è clitorideo, cap. 4,passim.
[11] Barbara Verzini, La fuerza detonante de la radicalidad feminista, “DUODA. Estudios de la Diferencia Sexual” 49 (2015) 40-49, e in italiano “Per amore del mondo” 13 (2015), http://www.diotimafilosofe.it/larivista/la-fuerza-detonante-de-la-radicalidad-femenista/ (sic).
[12] Isabel Manuela de Santa María, De conciencia, ed. de Clara Ramírez, Claudia Llanos, Mirna Flores y Laura Román, México, UNAM, 2016.
[13] Isabel Manuela de Santa María, De conciencia, 27, 63-64. Carolina Narváez Martínez, La dicha en la mística femenina y la experiencia de júbilo en Isabel Manuela de Santa María, Ricerca del Master in “Estudios de la Diferencia Sexual” del Centro de Investigación Duoda, Universidad de Barcelona, 2021.
https://www.diotimafilosofe.it/larivista/il-bisogno-dellanima-corporea-di-sentir-piacere/